I topi stanno a Banksy come le lattine di zuppa Campbell’s a Andy Warhol. È evidente che il topo assume per lui una dimensione metaforica: “Esistono senza permesso”, dichiara. “Sono odiati, braccati e perseguitati. Vivono in una tranquilla disperazione nella sporcizia. Eppure sono in grado di mettere in ginocchio l’intera civiltà”. Loro sopravvivono all’olocausto nucleare, noi no. Noi agiamo spinti da un bieco furore individualista, loro si muovono sempre ispirati da una logica collettiva.

Come i ratti popolano fogne, cunicoli, aree degradate e abbandonate delle metropoli moderne, così i graffitisti si muovono nottetempo in luoghi analoghi – tunnel, canali, depositi ferroviari, scheletri architettonici in disuso – per marchiare muri, vagoni, cancelli e serrande con i loro spray, stando bene attenti a non incappare nelle grinfie delle guardie sempre in agguato. Nei lavori di Banksy i ratti diventano vandali armati di vernice e pennelli, borghesi con l’ombrello e abiti impeccabili, scassinatori, rapper, operai, sabotatori, abili scalatori, persino terroristi che spargono barili di sostanze velenose lungo le strade e sui muri delle città.

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